In tempi di Covid Bosa rinuncia al suo carnevale

Sonia

In tempi di Covid Bosa rinuncia al suo carnevale

giovedì 17 Febbraio 2022 - 16:31
In tempi di Covid Bosa rinuncia al suo carnevale

Un momento del Carnevale bosano (foto PG. Vacca)

Mentre si avvicina la data del clou del Carnevale,  il sindaco Casula, considerata la situazione sia dei positivi (Soprattutto tra giovani) e lo scadere dello stato di emergenza il 31 marzo, è  stato costretto a rinviare le manifestazioni più note come il “ gioggia laldaggiolu”, le sfilate, le cantine, il più famoso “attitidu” e tutte le altre, ad un periodo più tranquillo da concordare.

Rimangono in piedi invece le iniziative meno pericolose come i concorsi per le scuole dell’infanzia, primaria e secondaria. Tutto il resto da spalmare in tempi migliori. Mancherà quindi, il 31 marzo, il famoso “Attitidu” al mattino e “Giolzi” alla sera.

A chi non conosce il Carnevale bosano lo spettacolo del martedì grasso appare.  quantomeno, inquietante. Un fiume di uomini e donne, vestiti da vedova in nero, con la faccia dipinta, passeggiano per il Corso urlanti, con una bambola rotta in braccio, descrivendo i bagordi che avrebbero distrutto il pupazzo, chiedendo, per lo più a ragazze, “ unu tichirigheddu de latte”, ( un goccio di latte). Sono le “attitadoras”, ovvero madri che piangono l’agonia di un bambolotto rotto.

Diversi antropologi, come la Gallini, la Satta e l’Atzori, concordano nell’individuare nella bambola rotta un “dema”, ovvero il simulacro di una divinità agraria che si divide, come la spiga di grano, morendo per poi risorgere. Nello stesso corteo sono numerosi i simboli fallici. Alla sera lo scenario cambia completamente. Questa volta le maschere sono vestite di bianco, il colore della rinascita, portano una rudimentale lucerna, fatta da un cestino con dentro una candela, e vanno in giro in cerca di un fantomatico “Giolzi”, che trovano, immancabilmente, all’altezza del pube degli astanti. Anche qui l’interpretazione e la reiterazione di riti agrari e di fertilità. Un altro grande ricercatore sardo, l’Alziator, suggeriva di indagare partendo dal “verde Giorgio”, una figura presente in tutti i riti di primavera, dedicati all’agricoltura, in tutti i paesi d’Europa di rito ortodosso, compreso in Italia, quando, il 23 aprile corre la festa di San Giorgio, (dal greco gheorgheos, che vuol dire contadino).

Il “verde Giogio” è un pupazzo vestito di frasche verdi, o un giovane vestito allo stesso modo, che poi in maniera reale o figurata viene eliminato. Non è difficile  legare queste tradizioni  anche all’opera di quei monaci ortodossi, profughi in Sardegna dopo lo scisma dell’ottavo secolo, che secondo le antiche prescrizioni del Papa Gregorio Magno, operavano per convertire al cristianesimo gli allora pagani sardi senza traumatizzarli. La Passio di San Giorgio era l’ideale. Il martire, così si racconta, resuscitò tre volte. Ma San Giorgio è anche il simbolo del trionfo del bene sul male, della luce sulle tenebre, dell’ordine sopra il caos. Qualche antica divinità venerata in Sardegna ha le stesse caratteristiche: muore, risorge e così riprende il ciclo della natura.

Pier Gavino Vacca

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