L’antropologo Giulio Angioni fa il punto sulla presunta matrice mafiosa dell’omicidio di Lanusei

Sonia

L’antropologo Giulio Angioni fa il punto sulla presunta matrice mafiosa dell’omicidio di Lanusei

sabato 29 Marzo 2014 - 08:33

Giulio Angioni fa luce sui mutamenti della violenza in Sardegna

L'antropologo Giulio Angioni

L’antropologo Giulio Angioni

I recenti accadimenti ogliastrini, che hanno portato alla morte violenta di Roberto Aresu, hanno suscitato immediatamente un dibattito, più o meno esplicito, in merito ai mutamenti intercorsi nelle tecniche di esecuzione degli atti di violenza. Il ricorso all’autobomba, infatti, è una anomalia nell’ambito della “cultura della violenza” isolana e ai più ha fatto riscontrare sinistre analogie con le metodologie in uso in altre regioni del Meridione. Abbiamo chiesto un parere in proposito all’antropologo Giulio Angioni, profondo conoscitore della cultura e delle tradizioni della Sardegna.
 

In Sardegna il cambiamento degli ultimi decenni lo pensiamo spesso tanto travolgente da autorizzare il rimpianto per un mondo che sembrava scomparire senza residui, né di bene né di male. Ma la fine della miseria materiale del passato non pare significhi ancora la fine di alcune forme contestuali di comportamento che hanno la forza delle tradizioni, dei modi di sentire millenari. E bisogna chiederci ancora quanto resti utile l’opinione che la violenza sarda, specie delle zone interne, sia ancora oggi una tipica violenza agro-pastorale, pur con tutte le distinzioni, tutti gli accorgimenti e tutte le cautele storiche. Però bisogna chiedersi ancora quanto è utile ipotizzare che è per il persistere dell’arcaico che la delinquenza sarda è a volte ancora lì, legata a una struttura socio-economica che l’ha generata in lungo volgere di millenni e che rimane ancora in certo modo contestuale a un modo di vita che continua fuori tempo: con schioppo e dinamite invece della carta bollata e della vertenza sindacale.

Quanto serve il senso comune, interno ed esterno alla Sardegna, che si è esercitato nello spiegare il mondo sardo tradizionale e specialmente la violenza agropastorale, davanti a fatti come la recente autobomba di Lanusei? E quanto serve la vecchia idea guida che per la “delinquenza” sarda agropastorale si tratta di aggiornare, migliorandolo o eliminandolo, un genere di vita millenario che ha prodotto uomini da tempo in un eccesso di disagio nel proprio mondo e nei rapporti con la comunità ufficiale che diciamo stato?

Di fronte a certi residui di criminalità sarda secolare, ciò che si vede di più è la nota volontà di non accettare il monopolio della forza da parte dello stato. Il contesto e lo scopo risultano molto oscuri, specie quando ancora qualcuno si rifà a tristi nozioni come violenza atavica, società criminogena, zona delinquente, incapacità individualistica e invidiosa di collaborazione e di accordo. E dunque ecco ancora una volta i soliti che dicono di sapere e invece sanno solo dire di sapere. Infatti è difficile vedere senso e direzione in fatti come questo, magari giocando col dilemma manicheo della violenza sarda fenomeno o tutto vecchio o tutto nuovo. I nuovisti oggi insistono sulla criminalità organizzata di tipo mafioso, o almeno sui suoi preludi sardi, come se l’intimidazione e la vendetta non fossero presenti nel vecchio mondo non solo agropastorale sardo, nei confronti di amministratori locali, di funzionari di polizia, di imprenditori e così via.

Se le antiche bardane o grassazioni sono terminate a fine Ottocento (e l’ultima è stata proprio qui in Ogliastra, a Tortolì circa un secolo fa) e i sequestri di persona sono (speriamo) terminati a fine Novecento, attentati, intimidazioni (specie a pubblici ufficiali) e intimidazioni si danno ancora in quantità massima rispetto al resto d’Italia.

Sono un male recente o di un passato duro a morire?

Certo che la fine di antiche miserie materiali o l’arrivo di nuove miserie da crisi economica mondiale non significano la fine di forme di violenza che hanno la forza dei modi di sentire e di agire millenari. Ancora qualche anno fa a Orgosolo hanno ammazzato un parroco e poi un poeta, con strascichi di altri omicidi. E non abbiamo saputo capire come a Orgosolo si possa così fare ancora petha manna, carne grande, per le feste di Natale e Capodanno. Eccezionale rispetto agli ultimi anni, anzi, rispetto agli ultimi decenni? Per bisogno di senso e di spiegazione si va subito anche oltre, magari allegando prove e indizi indiretti per dimostrare che alcuni omicidi sarebbero l’esecuzione di una sentenza tacita e collettiva della comunità di Orgosolo per punire l’assassinio del poeta Peppino Marotto. Quasi che il paese intero si fosse costituito a soggetto collettivo del diritto a quella forma di giustizia barbarica che è la vendetta di sangue e lavare l’onta che grava sul paese. Comunque per fare giustizia, all’antica. E qualcuno aggiungeva che sarebbe un progresso, se di volontà collettiva si tratta, rispetto alla vendetta privata del codice barbaricino.

Forse davvero si può pensare, o almeno sperare, che fatti come quelli orgolesi o questo di Lanusei restino isolati nel loro banale mistero di sangue, sole e irrelate nel tempo, deprecabili ma non spiegabili perché irripetibili, non inseribili né nelle ragioni del passato, né nelle ragioni del presente e tanto meno nelle ragioni del futuro, ma che restino incomprensibili, senza ragione, né sufficiente né necessaria, né elementarmente umana, né antropologicamente sarda, sempre più fuori tempo e luogo. Mentre di attuale e di aggiornato hanno certe tecniche della violenza negli ultimi tempi così tipiche della mafia siculo-continentale, ciò non autorizza a considerarle segno di neomafiosità sarda, ma nemmeno a consederarcene immuni per grazia di sardità.

Giulio Angioni © Tutti i diritti riservati

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