Caso Diana Pifferi”. Madre a processo: “Se tornassi indietro non lo rifarei di sicuro, per il mio compagno era un intralcio “

«Ero orgogliosa di lei e per me non è mai stata un peso. Mi sono pentita, se tornassi indietro non lo rifarei di sicuro». Alessia Pifferi, accusata di avere lasciato morire di stenti la figlia Diana di soli 18 mesi, è stata sentita due giorni fa  davanti alla Corte d’Assise di Milano, nel processo a suo carico per omicidio volontario pluriaggravato. La prossima udienza è già stata fissata per il 10 ottobre  dove si discuterà della relazione depositata oggi dall’avvocato difensore Alessia Pontenani. Il Tribunale dovrà anche decidere se sottoporre l’imputata a una perizia psichiatrica.  Intanto nella prima udienza è stato sentito uno  psichiatra consulente della difesa  che ha sottolineato come dai test sia emerso che la donna “ha un ritardo mentale” e un “Qi di 40, al limite tra l’insufficienza mentale media e l’insufficienza mentale grave”.  

Le TAPPE SALIENTI DEL 20 LUGLIO 2022.  «L’ho lasciata sola altre volte, ma pochissime. Non ricordo quante e di solito rientravo subito l’indomani. Le lasciavo due biberon di latte, due bottigliette d’acqua e una di ‘teuccio’. Ero preoccupata – ha aggiunto – avevo paura di molte cose. Ma pensavo che il latte le bastasse». Rispondendo alle domande dei pm Francesco De Tommasi e Rosaria Stagnaro, titolari dell’inchiesta, la donna ha ripercorso anche il momento in cui il 20 luglio del 2022, rientrando a casa dopo 6 giorni trascorsi in provincia di Bergamo con il compagno, aveva trovato il corpicino senza vita della piccola Diana.  «Era nel lettino, sono andata subito da lei, non ricordo se la porta era aperta o chiusa. L’ho accarezzata, ma ho visto che non si muoveva e capii che qualcosa non andava: non era in piedi come le altre volte, non giocava». Inutile ogni tentativo da parte della donna di rianimarla: «le feci il massaggio cardiaco, la presi in braccio e le diedi qualche pacchetta sulla schiena. Provai a bagnarle le manine, i piedini e la testina per vedere se si riprendeva. La rimisi nel lettino e le spruzzai anche dell’acqua in bocca». Nei sei giorni trascorsi a Leffe, in provincia di Bergamo, la donna e il compagno erano passati da Milano per un impegno di lavoro di lui, al quale lei aveva detto che la bimba era con la zia. Ma in quella occasione, la 37enne non era tornata nella sua abitazione di via Parea per occuparsi di Diana, che a quel punto era sola già da quattro giorni. «Avevo paura di parlare. Non dissi niente e lui mi riportò a casa sua. Io mi preoccupavo di mia figlia, ma purtroppo avevo paura delle reazioni del mio compagno. Era parecchio aggressivo, una volta ha anche cercato di sbattermi contro a un vetro in una discussione», ha detto. In altri passaggi del suo esame in aula, Pifferi ha ribadito più volte che per l’ex fidanzato la bambina era “un intralcio”. Lui “diceva che le voleva bene, ma non era vero. Mi ha usata e basta”. Secondo la donna, poi, sarebbe stato lui a consigliarle per primo di lasciare sola la bimba. “Parlando con le psicologhe del carcere mi sono ricordata che il mio compagno mi diceva di lasciarla sola in casa per andare a fare la spesa. Due o tre volte mi disse di lasciarla nel lettino per andare con lui al supermercato. Qui cominciai a farlo”.

Fuori dall’aula, la sorella di Alessia, Viviana Pifferi, parte civile nel processo, ha commentato dicendo che la familiare “ha recitato tutta la vita. Adesso è diventato cattivo quello di Leffe. Si è confermata: è sempre colpa di qualcun altro”.

Share
Published by
Sonia